DA BARCELLONA A SAN FRATELLO, LA PASQUA
DELLE CENERI. LA "MIA" SETTIMANA SANTA
Melo Freni
Ritornavo
per Pasqua e il profumo di zagara invadeva dai giardini
le strade del paese. Era un ritorno alla vita. Se da Vulcano
soffiava, il vento mescolava anche il profumo dei gelsomini,
intenso, dalle pianure più prossime.
Pasqua durava quasi una settimana
e comprendeva tutto ciò che in fatto di riti, ad
essa si riferiva. Misteri: quello doloroso del Venerdì
Santo, quello glorioso della Resurrezione.
I contadini tiravano fuori
dalle stanze buie i piatti di grano messo a germogliare,
ed i germogli dorati, a mazzi, a cespi, andavano a completare
gli ornamenti dei Sepolcri, il giovedì, che in uno
sfarzo di fantasie volevano esprimere il massimo della devozione
nei confronti del mistero annunciato.
Si continua ancora oggi a ritornare
per la Pasqua, ed a mancare sono soltanto i profumi delle
zagare e dei gelsomini, perché laria si è
impastata di stranezze, la fragranza dei fiori non è
uguale. Restano solo i colori. E i colori della Pasqua il
cuore li riscalda con un calore che non invecchia mai.
Così le mie Pasque restano
ancora quelle di Barcellona, di Castroreale e di San Fratello,
lungo quel segmento di terra che, sul versante tirrenico
del messinese, mescola alle tradizioni peloritane quelle
nebrodi.
A Barcellona la Pasqua è
interamente spagnola, negli addobbi, nei canti, nella idea
della sua rappresentazione.
Il gran teatro si anima con
i dodici attori, che sono popolani vestiti da apostoli,
colti nel peregrinare attraverso le chiese e i tabernacoli,
dopo il lavaggio dei piedi.
La loro ricerca dovrebbe essere
disperata, per aver perduto le tracce di Gesù. E'
il Giovedì Santo.
Poi, lindomani, gli attori
diventano di gesso, di legno, cartapesta, statue di toccante
bellezza, dintensità espressiva, che per oltre
un chilometro spargono sulle folle assiepate commozione
e pietà. Una ventina di statue che pressoché
si raddoppiano quando, sul greto ormai coperto del Longano,
si incontrano e confrontano con le altre, omologhe, di Pozzo
di Gotto, che rivendicano il riconoscimento della loro più
antica tradizione; come daltronde più antica
è la storia dellassembramento urbano che si
raccolse intorno al pozzo della famiglia Goto
proveniente da Messina, tra il Longano e il Mela.
Storia, invece, più
recente quella di Barcellona, limitrofa e già
dallinizio accorpata, nei possedimenti dellomonima
famiglia spagnola.
Si
dice che le vare di Pozzo di Gotto sono
più drammatiche, ed in effetti lo sono. Ma a quelle
di Barcellona bisogna riconoscere il primato della fastosità.
A colpire la fantasia, quando eravamo ragazzi, era lultima
cena, per la ricchezza delladdobbo: uva e meloni,
corniole e zibibbi, nespole e ciliegie fichi e datteri di
unepoca che non era quella odierna delle maturazioni
forzate, delle serre, delle comunicazioni rapide e dei trasporti
facili; allora la frutta per la cena arrivava
coi vapori dai paesi lontani, dai tropici, dal
sud America e gli anni si mettevano a gara perché
il successivo potesse superare il precedente. Alla stessa
stregua i fiori arrivavano da Sanremo, sui vagoni ferroviari
pieni zeppi, e si andava a vederli scaricare per la grande
meraviglia che destavano, a freddo ancora intenso (dicono
gli antichi proverbi che marzu è pazzu e ad aprili
non livari e non mittìri), quei carichi di garofani
e di rose, di tulipani e sterlizie, bocche di leone e campanule.
Adesso, se non proprio dalle
serre locali, i fiori arrivano al massimo da Vittoria, ma
lo zelo è sempre quello, uguale la sfida a chi para
meglio la varetta. E una gara che una volta
era delle corporazioni artigiane; adesso, perdutisi i vecchi
mestieri, resistono i gruppi dei pescivendoli, dei macellai
e degli agrumai la cui sopravvivenza fa lievitare ricordi
di una storia che pare lontana, quasi di secoli, mentre
invece è appena di ieri. Dalle zagare degli immensi
giardini, fiorivano arance amare e limoni dalla cui raccolta
provenivano i guadagni di un intera annata. Lungo i marciapiedi
davanti ai magazzeni, file di donne a dozzine cavavano gli
agrumi, dividendo le scorze dagli spicchi in botti separate,
per fermentare di acre e di ricchezza. Poi i tini partivano
sopra i carrimatti e diffondevano quellacre fino ai
vagoni in attesa alla stazione. Era il lavoro degli spiritari,
perché lo spirito era lessenza più preziosa
di quel procedimento e la sua destinazione era pure la più
nobile, fino a Londra e Parigi per i profumi più
raffinati; mentre il succo prendeva le strade dellindustria
alimentare, per le aranciate delle marche più rinomate.
Un ricordo della Pasqua può
portare anche a questo; ma ancora oggi (nonostante ce ne
sia una sola di grande industria per lestratto degli
agrumi, da consentirsi con assoluta modernità un
mercato mondiale), la sera del Venerdì Santo, dopo
la processione, come ai bei tempi, i visillanti
si riuniscono in magazzeni che ricordano quelli degli spiritari
per celebrare solenni piscistuccate alla ghiotta,
infarcite oltre che di acciughe e ulive salate da un autentico
esplodere di brindisi, a ciascuno dei quali corrisponde
una composizione in vernacolo la cui metrica è quasi
sempre esemplare. Festa di tavola e festa di poeti; la festa
della Resurrezione comincia da quel vino. Ma la visilla
è la parte più singolare della processione.
Dietro ogni vara, una polifonia di voci popolane intona
un antico motivo, costruito sui versi del poeta latino Venanzio
Fortunato Vexilla Regis: Cantiamo
i Vessilli del Re, lungo un saliscendi di acuti e
controcanti gutturali che perdono il senso delle stesse
parole ed esaltano quello della vitalità espressiva.
In Spagna sono le saettas,
a Barcellona è la Visilla, o le tante visille che
ciascuna varetta si porta alle sue spalle, esclusa
lurna del Cristo morto al cui accompagnamento basta
un manipolo di soldati giudei scelti ancora tra i netturbini
del paese, con un pretenzioso comandante impennacchiato
che fa sfoggio di spada e gesti perentori.
Allappello della memoria,
mancano tante cose al Venerdì Santo di Barcellona,
ma tutto ciò che è sopravvissuto e si è
rinvigorito nellostinazione della scommessa contro
le abulie, è veramente straordinario: le senzazioni
rinnovano lemozione, le nostalgie si acquietano, la
suggestione del presente sembra impareggiabile.
Intanto lassù, nel paese
abbarbicato alla collina, da una cui costola nacque Barcellona
qualcosa in più di cinquecento anni fa, lassù
a Castroreale, nel tramonto del giorno che vede la luce
sparire dietro i sipari di Tindari e delle Eolie, il Venerdì
Santo vede passare sui tetti la croce alta del Cristo lungo,
che è una immagine veramente rara. Un Crocefisso,
bello e commovente da non fare rimpiangere quelli usciti
dalla mano di frà Umile.
Da
Petralia, è sostenuto da un nugolo di pertiche, mosse
con accurata maestria, in cima ad un albero di oltre undici
metri; basta da solo, in quella altezza inusitata, che proprio
per questo spinge limmaginazione oltre il reale, a
sprigionare e comporre il senso doloroso della ricorrenza.
Basta solo quello, ma il manto nero di una Addolorata che
lo segue sopra un globo di cielo e di stelle, che sono insieme
terra ed universo, riporta alle dimensioni del quotidiano
la tragedia e il suo mistero, con la lucentezza di un pugnale
che trafigge il cuore.
Lantica tradizione popolare
dice che lu venniri matìnu la Matri Santa si misi
n caminu e andò a circari lu so caru
figghiu. Un pò dovunque, dove unAddolorata
segue la croce, o lurna del suo figlio morto, si capisce
che tipo di ritrovamento è avvenuto. Tragico, ma
vero. Nella processione di Castroreale la singolarità
sta nel confronto, unico, delle due dimensioni, che si può
leggere in chiave simbolica: la piccolezza del mondo di
fronte allimmensità della Croce, che tuttavia,
pur nella sua immensità, ha bisogno degli uomini
(oh, quelle pertiche a mantello!).
Era destino che non si potesse
evitare.
Il giovedì e il venerdì
della Settimana Santa le campagne di San Fratello sono assordate
dalle trombe dei giudei, nellatto di rappresentare
la ricerca che fecero di Gesù, per portarlo davanti
al Sinedrio.
Sono popolani vestiti con una
foggia che soprattutto sa di carnevale, ivi comprese le
maschere. I colori delle stoffe in prevalenza sono il rosso
e il giallo, e le scarpe da capro. Solo gli
elmetti sanno di gendarmenia. I giudei saltano,
ballano, dissacrano, corrono, si precipitano, e suonano,
disperatamente suonano le loro trombe per riempire le valli
di echi che sono striduli ed agghiaccianti. Danno vista
di cercare Gesù, come avvoltoi la loro innocua preda,
con tanta pervicace follia da tramutarsi, immediatamente,
in simboli che dallevento cristiano ci riportano più
indietro. E come un carnevale che continua e si esaspera
per simboleggiare il disordine del caos alla vigilia
dellavvento moderatore del cronos; lantichità
soleva sottolineare il risveglio della vita, a primavera,
come resurrezione, con la rappresentazione di vigilie indemoniate:
dai Kronia dei greci ai Saturnali dei romani. Ebbene, i
giudei di San Fratello sembrano caricarsi di
quelle simbologie, soprattutto se si sta attenti alle figurine
dipinte sui loro elmetti, sui loro abiti, che col mondo
di quei giudei non hanno nulla a che fare: dalle
boccacce dei diavoli alle feminine nude.
Perciò, i giudei
di San Fratello non cercano Gesù, ma esaltano la
loro follia alla vigilia del grande evento che ne segnerà
la definitiva sconfitta, in attesa che la ruota del tempo
ridiscenda allinferno.
Dopo il Venerdì Santo,
la festa scivola su tre giorni scontati: il sabato, la domenica,
il lunedì dellangelo. Tre giorni di gioia,
dopo la passione vissuta? Sembra impossibile la gioia, perché
il posto sembra solo quello del dolore; e nonostante le
campane della gloria, anche in questo angolo affacciato
al Tirreno, la Sicilia rimane la stessa: al di là
del mistero doloroso non sa meglio celebrare la sua vita,
e sulla Pasqua delle palme vola quasi sempre un leggero
vento di cenere.
Melo Freni
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